Giorno d'autunno Signore: è tempo. Grande era l’arsura. Deponi l’ombra sulle meridiane, libera il vento sopra la pianura.
Fa’ che sia colmo ancora il frutto estremo; concedi ancora un giorno di tepore, che il frutto giunga a maturare, e spremi nel grave vino l’ultimo sapore. Chi non ha casa adesso, non l’avrà.
Chi è solo a lungo solo dovrà stare, leggere nelle veglie, e lunghi fogli scrivere, e incerto sulle vie tornare dove nell’aria fluttuano le foglie. Alcesti A un tratto il messo era comparso, come un nuovo giunto, immerso nel tumulto della festa di nozze, fra la gente. Ed essi, i bevitori, non sentirono il dio dal chiuso andare, che portava la sua divinità come un mantello umido, e parve loro uno dei tanti mentre passava. Ma improvvisamente vide in mezzo ai discorsi uno degli ospiti a capo della tavola lo sposo come non piú giacente, ma rapito in alto, rispecchiare dal profondo un’ombra estranea che paurosamente gli si volgeva... E subito fu chiaro, fu calma, solo con un resto a terra di torbido rumore, un gorgogliare di balbettii cadenti, già corrotti, di sorde risa trattenute. Allora riconobbero il dio, l’agile dio, che stava, pieno della sua missione, implacabile, – e quasi si comprese. Pure, quando fu detto, parve piú d’ogni scienza, non cosa da comprendere. Deve morire Admeto. Quando? Adesso. Ma egli ruppe la scorza del dolore in pezzi e ne distese alte le mani, come per trattenere il dio fuggente. Anni chiedeva, solo un anno ancora di giovinezza, mesi, pochi giorni, ah, non giorni, ma notti, una soltanto, solo una notte, questa notte: questa. Il dio negava. Gridò allora Admeto, gridò vani richiami a lui, gridò, come gridò sua madre al nascimento.
Ed ella venne a lui, la vecchia donna, ed anche il padre venne, il vecchio padre, e stettero invecchiati, incerti, presso lui che gridava e a un tratto fissò in loro lo sguardo, s’interruppe, inghiotti, disse: «Padre, importa molto a te di questo avanzo di vita che ti vieta ormai l’amplesso? Su, gettalo. E anche tu, tu, vecchia donna, Matrona, perché vivi tu ancora? Hai partorito». E li teneva vittime all’altare in una presa. A un tratto lasciò i vecchi, li spinse via da sé, mentre chiamava anelante, ispirato: Kreon, Kreon! E solo questo, solo questo nome. Ma sul suo viso quello che non disse era impresso in attesa senza nome; e ansante verso il giovane, il diletto amico, oltre la tavola sconvolta si protendeva: i vecchi, vedi, sono consunti – misero riscatto – e poco valgono, mentre tu nella pienezza...
Ma l’amico era come dileguato. Allora tacque, e chi venne fu lei, esile forse piú di prima, e lieve e mesta nella sua veste nuziale. Gli altri non sono che la strada a lei che viene, viene... (e subito sarà tra le braccia che s’aprono al dolore). Ma Admeto attende ed ella non a lui si volge. Parla al dio che la comprende, e tutti la comprendono nel dio. Nessuno è a lui compenso. Io solamente. Io lo sono. Perché nessuno è al fine come me. Cosa resta a me di quello ch’ero qui, cosa resta oltre il morire? Lei non ti ha detto nel mandarti a noi che quel giaciglio che di là ci aspetta è d’oltretomba? Io già presi commiato, io presi ogni commiato.
Nessun morente piú di me, che vengo perché tutto, sepolto sotto quello che è il mio sposo, svanisca, si dissolva. Prendimi dunque: prendimi per lui. Come la brezza che si leva al largo, il dio s’avvicinò, quasi a una morta e fu lontano subito dall’uomo a cui in un breve gesto egli donava tutte le cento vite della terra. Admeto, vacillante, li rincorse per aggrapparsi, come in sogno. E loro erano già dove le donne in pianto gremivano l’uscita. Ma una volta ancora egli le vide il viso, indietro rivolto, in un sorriso chiaro come una speranza, una promessa: a lui tornare adulta dalla cupa morte, a lui vivente... Allora egli le mani premette sulla fronte, inginocchiato, per non vedere piú che quel sorriso. Orfeo Euridice Hermes Era l’ardua miniera delle anime. Correvano nel buio come vene d’argento, silenziose. Tra radici sgorgava il sangue che poi sale ai vivi nella tenebra duro come porfido. Poi null’altro era rosso.
V’erano rocce e boschi informi. Ponti sopra il vuoto e quell’immenso grigio, cieco stagno che premeva sul fondo come un cielo di pioggia sui paesaggi della terra. Fra i prati tenue e piena di promesse correva come un lungo segno bianco l’incerta traccia della sola strada.
E quell’unica strada era la loro.
Avanti l’uomo nel mantello azzurro agile, con lo sguardo volto innanzi muto e impaziente. Il passo divorava la strada a grandi morsi. Gravi, rigide cadevano le mani dalla veste e ignoravano ormai la lieve lira cresciuta alla sinistra come un cespo di rose in mezzo ai rami dell’ulivo. E i suoi sensi rompevano discordi: lo sguardo andava innanzi, si aggirava come un cane, era accanto e poi di nuovo lontano, fermo sulla prima curva – l’udito indietro come resta un’ombra. Talvolta egli credeva di tornare ai due che indietro sulla stessa via dovevano seguirlo. Poi di nuovo alle spalle restava appena l’eco dei suoi passi e il mantello alto nel vento. Ma diceva a se stesso: Essi verranno –, ad alta voce, e si sentiva spegnere. E tuttavia venivano ma due dal lentissimo passo. Se egli avesse potuto volgersi un istante (e volgersi era annullare tutta quell’impresa che si compiva ormai) li avrebbe visti, i due che taciturni lo seguivano.
Il dio dei viaggi e del lontano annunzio che innanzi a sé reggeva la sottile verga, e aveva sugli occhi il breve casco e alle caviglie un palpitare d’ali; e affidata alla sua sinistra: lei. Lei cosí amata che piú pianto trasse da una lira che mai da donne in lutto; cosí che un mondo fu lamento in cui tutto ancora appariva: bosco e valle, villaggio e strada, campo e fiume e belva; e sul mondo di pianto ardeva un sole come sopra la terra, e si volgeva coi suoi pianeti un silenzioso cielo, un cielo in pianto di deformi stelle –: lei cosí amata.
Ma ora seguiva il gesto di quel dio, turbato il passo dalle bende funebri, malcerta, mite nella sua pazienza. Era in se stessa come un alto augurio e non pensava all’uomo che era innanzi, non al cammino che saliva ai vivi. Era in se stessa, e il suo dono di morte le dava una pienezza. Come un frutto di dolce oscurità ella era piena della grande morte e cosí nuova da non piú comprendere.
Era entrata a una nuova adolescenza e intoccabile: il suo sesso era chiuso come i fiori di sera, le sue mani cosí schive del gesto delle nozze che anche il contatto stranamente tenue della mano del dio, sua lieve guida, la turbava per troppa intimità.
Ormai non era piú la donna bionda che altre volte nei canti del poeta era apparsa, non piú profumo e isola dell’ampio letto e proprietà dell’uomo. Ora era sciolta come un’alta chioma, diffusa come pioggia sulla terra, divisa come un’ultima ricchezza. Era radice ormai. E quando a un tratto il dio la trattenne e con voce di dolore pronunciò le parole: si è voltato –, lei non comprese e disse piano: Chi?
Ma avanti, scuro sulla chiara porta, stava qualcuno il cui viso non era da distinguere. Immobile guardava come sull’orma di un sentiero erboso il dio delle ambasciate mestamente si volgesse in silenzio per seguire lei che tornava sulla stessa via, turbato il passo dalle bende funebri, malcerta, mite nella sua pazienza. [ Poesie, Rainer Maria Rilke, traduzioni di Giaime Pintor, Einaudi ]
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Gian Piero Stefanoni
- 07/11/2019 09:38:00
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Sono pienamente daccordo con Franca, Rilke è incommentabile e capitale la sua poesia.. mi piacerebbe che le nuove generazioni comprendessero appieno il senso di questa scrittura che li racconta e ci racconta come rarissimi autori hanno saputo fare.. provocatoriamente la redazione dovrebbe oscurare lintero sito per consentirlo.. aiuterebbe tutti noi a comprendere che prima di scrivere bisogna leggere e saper leggere.. grazie per la proposta..
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Franca Alaimo
- 04/11/2019 16:35:00
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Come si fa a commentare Rilke? E poi io per la quale egli rappresenta il punto più alto, lirraggiungibile? Rilke ha detto limpronunciabile, ha esplorato le zone più segrete del cuore e dellanima e ha fatto dei miti la rappresentazione del destino umano. Dunque il mio commento è questo: Rilke, ti adoro!
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